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Le origini africane delle prime e di molte specie umane, il caso Sudafrica/1

Di Valerio Calzolaio

La porzione di territorio del continente africano oggi delimitata dai confini dello stato nazionale del Sudafrica (circa quattro volte più grande di quello dell’Italia) contiene diversi peculiari ecosistemi e un patrimonio di biodiversità antichissimo. Per fare solo un esempio relativo alla parte più meridionale del paese (e dell’Africa), si può accennare alla splendida Table Mountain che sovrasta Cape Town (1.086 metri di altezza), considerata una delle montagne più antiche del mondo, risalente a circa 520 milioni di anni (prima che si separassero le unitarie terre emerse, le une dalle altre), più antica dell’Himalaya, mentre le nostre Alpi risalgono a “solo” 120 milioni di anni. La parte frontale della “tavola”, rivolta verso la città, è lunga circa tre chilometri e appare dal mare sostanzialmente diritta, una compatta scabra roccia dalle cento colorazioni quotidiane; il versante opposto ha una morfologia notevolmente più complessa e l’enorme curatissimo giardino botanico di Kirstenbosch conserva da oltre un secolo uno dei più ampi serbatoi di biodiversità vegetale del pianeta.

Da molti decenni quel territorio sembra essere diventato cruciale anche per comprendere alcuni passaggi chiave dell’evoluzione umana, delle specie preesistenti o compresenti rispetto alla comparsa del genere Homo e della stessa vicenda della nostra specie, i sapiens, della maturazione e delle prime migrazioni che ci hanno caratterizzato. Da sei a due milioni di anni fa l’intero continente africano fu “il” territorio umano, con uno schema di adattamento abbastanza chiaro. Gli ominidi (tralasciamo qui l’articolazione fra ominidi e ominini) si spostavano al limitare tra le aree forestali e gli spazi aperti, attorno alla foresta tropicale ed equatoriale. Erano specie di transizione, ancora attaccate all’antico habitat arboricolo di rifugio, sempre più “tentate” dall’esplorazione delle radure erbose. Presentano tutte un mosaico di tratti «scimmieschi» e di tratti legati a un’incipiente locomozione bipede, come se fossero forme ibride con adattamenti flessibili tipici di un habitat eterogeneo. Molti milioni di anni prima, la formazione della grande barriera di origine tettonica della Rift Valley portò a un progressivo inaridimento dei territori orientali del continente africano, dal Sudafrica all’Eritrea.

Si prendono come riferimento i sei milioni di anni perché è il periodo in cui sappiamo essere vissuto un animale (di cui non abbiamo tracce fossili) antenato comune tra noi e gli scimpanzé. Prima di questo periodo c’erano altre storie, altri ominidi che si muovevano in Africa, ma tutto è iniziato quando in quella zona territoriale sono avvenuti una serie di cambiamenti ecologici su larga scala. La carriera dei primi ominidi bipedi cominciò proprio in questa fascia cangiante, luogo unico al mondo, perché la nicchia ecologica di alcune grandi scimmie si andava climaticamente staccando dal territorio d’origine, separando fisicamente i gruppi. Lentamente la foresta si ritrasse parecchio e li lasciò da soli negli spazi aperti. Sudafrica, Africa orientale, Corno d’Africa, regione del lago Ciad: è in quest’area che si sono svolti i primi due terzi dell’evoluzione umana e da quest’area partiranno le espansioni umane fuori dall’Africa. Una molteplicità di specie, ciascuna recante un mix unico di caratteri, ha coabitato in Africa in quel periodo. Da quel crogiuolo complicatissimo di forme, distribuite fra l’Etiopia e il Sudafrica, è emerso il genere Homo, non conosciamo precisamente né quando né dove. Ora il Museo nazionale sudafricano di Cape Town fa il punto aggiornato sulla paleoantropologia, con materiale espositivo chiaro e molto interessante.

Lo storico museo fu fondato nel 1825 ed è situato nel gradevole ampio centrale contesto naturalistico dei Company’s Gardens, visitato da milioni di visitatori attratti dalla vasta collezione fossile (risalente pure a quasi settecento milioni di anni or sono), oltre che dagli strumenti di pietra realizzati da sapiens di 120.000 anni fa. Nel 1897 il Museo si trasferì nell’attuale edificio, di recente riammodernato e ristrutturato, purtroppo senza catalogo e bookshop. Il museo da pochi mesi, in collaborazione con l’Istituto di ricerca sull’evoluzione umana dell’Università di Città del Capo (UCT), ha promosso una nuova meravigliosa esposizione intitolata HUMANITY. La mostra è a piano terra, all’ingresso consigliano di cominciare da lì e fanno bene. Racconta con reperti, iconografiche, pannelli, impianti la storia dell’evoluzione incentrata sulla diversità degli esseri umani oggi e su come siamo diventati così, una storia di intelligenza, creatività e resistenza nel tempo. Non c’è qui particolare enfasi sullo specifico territorio dell’attuale Sudafrica, anzi emergono di continuo anche le interpretazioni faziose e discriminatorie di alcune scoperte. Certo, la ricostruzione si concentra sulla ricca documentazione di individui umani trovati in Sud Africa e nell’intera Africa e una qualsiasi mattina vi trovate decine di classi studentesche con insegnanti e guide, incarnati molto differenti e differentemente meticci. Gli orari sono agevoli (tutti i giorni 9-17) e il costo abbordabilissimo (circa 60 rand, 3 euro, gratuito il venerdì, vari sconti per bambini, scuole, anziani).

La vicenda della paleoantropologia sudafricana meriterebbe un’attenzione culturale che tenga conto del colonialismo e dell’apartheid, un po’ come quella del rugby. Resta il fatto che nell’ultimo secolo vi sono stati rinvenimenti imprescindibili per studiosi e scienziati di tutto il mondo. La grotta di Sterkfontein è una di queste culle dell’umanità, un sito paleoantropologico che si trova molto anord di cape Town, circa 50 chilometri a nord-ovest di Johannesburg nella provincia del Gauteng, dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco già nel 1999, pochi anni dopo la sua scoperta. Il sito occupa attualmente 47 000 ettari e contiene un complesso di anfratti calcarei. Il nome registrato è Siti fossili di ominidi del Sudafrica, perché vi sono stati rinvenuti i primi primati e forse la prima specie estinta di ominide mai trovata in Africa. Quella sola grotta ha rivelato più di un terzo dei primi fossili di ominidi mai trovati prima del 2010.

Ciò che sappiamo è che nella vasta regione che bordeggia la foresta africana, andando dal Sudafrica al lago Ciad, molti generi di specie precedenti il genere Homo si sono contesi il territorio fin quasi a due milioni di anni fa. Possiamo ipotizzare che fossero già in grado non solo di errare, di fuggire, di allargare l’areale, di seguire le migrazioni animali, ma anche di adattarsi alle mutate condizioni locali e di gestire cambiamenti di insediamento, di iniziare a pianificare spostamenti, insomma di migrare nel significato più ampio. Quando i gruppi restavano isolati s’interrompevano gli incroci e potevano emergere nuove varianti per isolamento geografico, sottospecie e poi vere e proprie specie distinte. Migrazione qui significò speciazione. Iniziò un processo di frammentazione che gli evoluzionisti chiamano radiazione adattativa: da una specie africana iniziale si diramano più specie in Africa ed Eurasia: “Migration in a part of ALL of our stories”, ribadisce un esemplare cartello esplicativo del museo.

Anche se gli ominidi erano probabilmente diffusi nell’intera Africa, i loro resti possono essere ritrovati solo nei siti in cui le condizioni geologiche hanno permesso la fossilizzazione. Il sito complessivo delle grotte di Sterkfontein non è l’unico, certo è il più importante, forse gli scavi fossili ininterrottamente più lunghi al mondo. Nel 1935 Robert Broom trovò i primi fossili di ominidi a Sterkfontein e iniziò ad allargare gli scavi. Nel 1938 il famoso Raymond Dart identificò frammenti di un teschio dalla vicina Kromdraai, che in seguito furono ricordati come Paranthropus robustus (il museo dedica un’intera parete ai molteplici teschi via via rinvenuti, spiegando nessi evolutivi). Sempre nel 1938, un singolo dente di ominide fu trovato nel sito di Cooper tra Kromdraai e Sterkfontein. Nel 1948 Broom identificò i primi resti di ominidi dalla vicina grotta di Swartkrans, dove Brain dal 1954 lavorò per tre decenni, recuperando il secondo campione più grande di resti di ominidi dalla Culla. Anche il più antico uso controllato del fuoco da parte dell’Homo erectus è stato scoperto nella grotta di Swartkrans e risale a oltre un milione di anni fa. L’area comprende poi la famosa grotta dove fu rinvenuto il più antico fossile di Australopithecus africanus soprannominato Mrs.Ples, risalente a 2,3 milioni d’anni fa, scoperto nel 1947 dai paleontologi Broom e Robinson (mentre il bambino di Taung era stato rinvenuto nel 1924 nella provincia sudafricana di North West).

Nel 1966 Phillip Tobias (successore di Dart all’Università del Witwatersrand, da cui provengono quasi tutti gli scienziati fin qui richiamati) iniziò i suoi scavi a Sterkfontein e nel 1991 Lee Berger scoprì i primi esemplari di ominidi dal sito di Gladysvale, rendendo questo il primo nuovo sito di ominidi a essere scoperto in Sudafrica in 48 anni. Nel 1994, Andre Keyser scoprì fossili di ominidi nel sito di Drimolen. Nel 1997 Kuykendall e Menter hanno trovato due denti fossili di ominidi nel sito di Gondolin. Sempre nel 1997, lo scheletro quasi completo dell’Australopithecus di “Little Foot “, risalente a circa 3,3 milioni di anni fa, fu scoperto da Ron Clarke. Nel 2001, Steve Churchill della Duke University e Lee Berger hanno trovato resti umani della prima età moderna a Plovers Lake. Sempre nel 2001, i primi fossili di ominidi e strumenti in pietra sono stati scoperti in situ a Coopers. Nel 2008, Lee Berger ha scoperto i resti parziali di due ominidi (Australopithecus sediba) nel sito fossile di Malapa, vissuti tra 1,78 e 1,95 milioni di anni fa.

Nell’ottobre 2013, Berger ha incaricato il geologo Pedro Boshoff di studiare i sistemi di grotte di Sterkfontein con il preciso scopo di scoprire più siti fossili di ominidi. Speleologi hanno individuato fossili di ominidi in un’area precedentemente inesplorata del sistema di grotte Rising Star/Westminster a cui è stata assegnata la designazione del sito UW-101. Nel novembre 2013, Berger ha guidato una spedizione congiunta con la National Geographic Society e, in sole tre settimane di scavo, il team internazionale di sei donne di scienziati speleologici avanzati (K. Lindsay Eaves, Marina Elliott, Elen Feuerriegel, Alia Gurtov, Hannah Morris e Becca Peixotto), scelti sia per le abilità paleoantropologiche e speleologiche che per la loro piccola statura, hanno recuperato oltre 1.200 esemplari di una specie di ominidi fossili attualmente non identificata. Il sito è ancora in fase di datazione. Nel settembre 2015, Berger, di nuovo in collaborazione con National Geographic, ha annunciato la scoperta di una nuova specie di “parente” umano, denominata Homo naledi, da UW-101. Sorprendentemente, oltre a far luce sulle origini e sulla diversità del nostro genere, Homo naledi sembra anche aver depositato intenzionalmente i corpi dei suoi morti in una remota camera della caverna, un comportamento precedentemente ritenuto limitato agli esseri umani. Negli ultimi giorni della spedizione, gli speleologi Rick Hunter e Steven Tucker hanno scoperto materiale fossile di ominidi aggiuntivo in un’altra parte del sistema di grotte. Gli scavi preliminari in questo sito, designato UW-102, sono iniziati e hanno prodotto il proprio materiale fossile di ominidi completo. Non è ancora ben chiaro quale sia la relazione tra i siti UW-101 e UW-102. Il museo presenta con semplicità e chiarezza gran parte di queste “tracce” umane emerse in Africa, spesso migrate all’interno del continente, in rare ma decisive occasioni migrate altrove, molto lontano.

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